“Stella Splendens Suite” è un disco che ci mostra all’opera tre coraggiosi musicisti, precisamente Fabio Turchetti (fisarmonica, harmonium), Florindo Grillo (sax soprano, clarinetto basso, oboe) e Maurizio Murdocca (tabla) in un esperimento mirato alla fusione di diverse sonorità, una sorta di pastiche musicale, dove trovano spazio, uno affianco all’altro, stili ed esempi lontani fra loro non tanto in senso geografico, che resta in ambito mediterraneo, quanto piuttosto temporale.
Il progetto dei tre musicisti infatti prevede una buona documentazione e raccolta di materiale, fonti a cui attingono senza troppi complimenti, consistente in alcuni quaderni e codici antichi, raccolte di canti e musiche popolari. La portata cronologica della selezione va dunque da alcuni frammenti di G. De Conci (XII secolo) fino a tempi più recenti, con le vecchie ballate lombarde raccolte nei Quaderni del Cambonino. Il gioco, per i musicisti, sembra quasi stare nella ricerca delle possibili combinazioni in cui queste fonti possono disporsi, giacchè è evidente che gli esecutori non le sfruttano per le possibilità di elaborazione aggiunta, preferendo leggerle in maniera più canonica e lineare, senza rimaneggiamenti.
A questa “regola” è però posta – com’è giusto – un’eccezione equilibrante, che consiste nella presenza di alcune brevi composizioni dello stesso Turchetti, a volte semplici melodie, a volte arrangiamenti più elaborati, che appaiono tuttavia sullo stesso piano delle altre fonti musicali, innocentemente inserite fra di loro.
Con tali premesse la strutturazione del lavoro acquista una forma inusuale, frammentata, breve e forse anche giocosa. I brani originali sono condensati in più lunghe compilazioni, mescolati ed uniti tra loro come per mano di un DJ ante litteram; si passa dunque da un raccolta di melodie tardo-medievali (“Stella Splendens”, dal “Liber Vermell”) ad una melodia tradizionale del cremonese (Monferrina). Il disco diventa quasi un’opera a più mani, come un quadro le cui parti siano state eseguite da autori diversi con tecniche diverse.
Un discorso più improntato verso la rilettura ed il riarrangiamento va fatto invece per il quarto brano, consistente nella trasmutazione del frammento 290 delle Cantigas di Alfonso XI in “Zahara”, brano originale di Turchetti.
La scelta dell’organico ristretto ed essenziale è in linea con la forma dell’opera, che sembra appunto rievocare un tempo passato, tradizionale nel senso più etimologico del termine. Vi dominano la fisarmonica e l’harmonium, scanzonati e giocosi, su cui si appoggiano le melodie di Grillo. Più originale è la volontà di affidare le ritmiche non ad uno strumento proprio di queste culture musicali, come poteva essere l’onnipresente tamburello, bensì alle tabla, cioè allo strumento ritmico indiano per definizione. Anche se filologicamente tale scelta può sembrare un poco forzata, si tratta di un espediente di grande effetto, che grazie all’indiscussa bellezza del suono di questi particolari tamburi gratifica l’ascolto e rende il suono meno scontato.
Da una prospettiva generale, si tratta insomma di un lavoro interessante e piacevole, anche se purtroppo non in grado di sostenere ascolti numerosi in quanto, dopo averne compreso i linguaggi che lo articolano, risulta pacifico e un po’ pleonastico. Non è giusto tuttavia tralasciare il merito di una ricerca così caratteristica, che probabilmente, se portata ancora avanti con passione, può fruttare, ad ascoltatori e musicisti, risultati ben più gratificanti.Achille Zoni, Jazzitalia